Sono una ragazza semplice, pochi anni, molti anelli. Una natura morta dalla chioma folta, un fiammifero già spento, o forse non ancora acceso. Niente gioielli, due diamanti. Colorata dentro e non fuori, o forse fuori e non dentro, forse tutta bianca, forse tutta nera. Trasparente ma di spessore, oppure opaca ma vuota. Forte e sottile, debole e doppia, faccio rumore in punta di piedi e sono silenziosa quando corro. Confondo e chiarifico, sostengo gli sguardi e li sfuggo, sorrido ma non troppo, mi arrabbio a volte ma non poco, o forse è il contrario. Non so mostrarmi, né descrivermi, gli altri lo fanno per me. Che abbiano ragione o no, non fanno altro, e nell’insieme delle cattiverie costruiscono una mia fotografia sfocata. Dicono che sia strana, addirittura che cambi comportamento, espressione del viso e dello sguardo più velocemente di quanto Chiara Ferragni non pubblichi le del suo “outfit giornaliero”. Altri hanno azzardato la parola “bipolare” in maniera sprezzante, quasi fosse un disastro essere bipolare, una malattia dalla quale non poter più guarire, o forse lo è. Mi spaventa ma mi attira, e l’idea non mi dispiace ma mi rende triste un poco, un poco che è abbastanza, ma sapendo di essere bipolare sarei felice. Sarei felice, poi triste, di nuovo felice, arrabbiata, spensierata, cupa, solare, e sarei libera di esserlo. Infatti, il bipolarismo, o disturbi dello spettro bipolare, non è altro che un disturbo psichiatrico caratterizzato dall’alternanza tra l’eccitamento della sfera psichica e la sua inibizione, che porta ad alterazioni dell’equilibrio timico, dei processi ideativi, anomalie del livello energetico e del ritmo sonno-sveglia, nonché del livello comportamentale. Forse questa descrizione un po’ mi si addice, o forse no. E’ chiaro oramai, non sono in grado di descrivermi, non lo sono mai stata, eppure saprei dire cosa mi piace, cosa amo.
Sono una ragazza semplice, odio tutto ma amo parecchie cose, forse non dovrei ma, noncurante eppure consapevole degli effetti che tali cose hanno sul mio organismo e dei rischi che queste rappresentano per me e per il mio corpo, lo faccio lo stesso. Non riesco a evitarlo, o forse non voglio.
Sono una ragazza semplice, e amo la musica. Non ho preferenze, la amo tutta, in ogni suo genere e sfaccettatura, senza eccezioni. Amo ascoltarla in ogni momento della giornata, appena sveglia e prima di andare a dormire, nei momenti liberi a scuola, lungo il tragitto verso casa. Amo le vecchie canzoni che ormai hanno fatto il loro tempo, amo i brani appena rilasciati, la musica classica, la jazz, quella rock, quella pop, quella che nessuno sa definire, quella del cantante sconosciuto e del cantante depresso che non piace a nessuno, quella delle discoteche o degli happy hour in estate al bar con gli amici. Amo tutta la musica, soprattutto quando la ascolto da sola, con il suono che passa attraverso le cuffiette e raggiunge il mio condotto uditivo. Tutto rigorosamente ad alto volume, anzi, al massimo livello che il volume di quel determinato dispositivo può raggiungere. Provocherò danni al mio sistema uditivo, le onde lacereranno le pareti del condotto che porta al timpano, che potrebbe restare intatto, così come lacerarsi esso stesso. A lungo andare ciò mi porterà, nella migliore delle ipotesi, ad un trauma uditivo, con il suo senso di ottundimento auricolare, ronzio continuo e perdita temporanea dell’udito. Se sarò fortunata, potrei ottenere una diminuzione del livello acustico per le frequenze alte e un “tinnitus”, un fischio che permarrà in eterno e che probabilmente mi farà diventare matta. “Potrai diventare sorda”, mi dicono. Ne sono consapevole, e decido di accettarlo.
Sono una ragazza semplice, amo ballare. Ballo da sola, “ballo fuori” tutto quello che la rabbia fa ribollire dentro di me. Ballo anche in discoteca, dove la musica non può che essere al volume che piace a me, ed è proprio in discoteca che incontro il mio terzo amore.
Amo bere alcolici. L’alcool è ad oggi la droga più diffusa al mondo nonché la più assunta e, dati gli effetti ansiolitici e di rinforzo positivo che ha su di me, non ne sono sorpresa. Mando giù un bicchiere, poi due, tre, fino a perdere il conto; una sera, due, tre, e così via, perché gli effetti aumentano in maniera direttamente proporzionale alla dose che assumo. Più bevo e meglio sto, in poche parole. Non bisogna però pensare che sia ignorante sulla parte teorica, sul modo in cui quel siero agisce su di me e sui numerosi rischi che esso comporta. L’alcool, infatti, non possiede dei recettori specifici, e dunque agisce sul sistema nervoso centrale nella sua totalità, inibisce i recettori per i neurotrasmettitori eccitatori, ed eccita quelli per gli inibitori; agisce sul sistema neurale attaccando i canali ionici delle membrane dei neuroni, come quelli del calcio e del cloro. Probabilmente anche il GABA, Acido γ-amminobutirrico, è coinvolto negli effetti di rinforzo positivo dell’alcool, probabilmente per il suo effetto inibitorio sul sistema nervoso centrale che determina una sedazione generalizzata ed effetti ansiolitici. L’alcool crea dipendenza, e io ne dipendo già da un po’ di tempo; a lungo andare provoca danni più o meno seri agli organi interni, quali stomaco, fegato, pancreas e sistema cardiocircolatorio. Tra qualche anno potrei essermi procurata una cirrosi epatica, magari cronica, ovvero un malfunzionamento del fegato causato da un’infiammazione e dalla trasformazione dell’organo in tessuto fibroso; in alternativa, potrei tranquillamente soffrire di anemia, di un anomalo numero di piastrine, oppure potrei aver danneggiato le pareti delle mie cellule sanguigne nel giro di qualche anno. Potrei dover prendere delle pasticche, fare delle cure specifiche, potrei dover essere operata, potrei morire. “Ti rovinerai”, mi dicono. Ne sono consapevole, e decido di accettarlo.
Sono una ragazza semplice, amo stare da sola. Dicono che sia il combinarsi tra alcool e musica ad alto volume a portare all’isolamento, come sarebbe stato dimostrato da diversi studi, ma la cosa non mi convince. Altri dicono che io non sia ben accetta da tutti e che ciò mi abbia portato ad adattarmi a determinate condizioni, ma non credo neanche a questa “teoria”. Semplicemente amo essere in solitudine, che lo si voglia chiamare isolamento poco importa, purché ci si informi sull’isolamento. Forse è vero, io mi isolo, e questo mi ricollega ad una possibile futura esigenza del mio cervello. Infatti, il cosiddetto isolamento sociale non implica solo delle reazioni legate a sentimenti ed emozioni, bensì anche una situazione nella quale è il nostro cervello ad essere bisognoso di stimoli. Nel momento in cui determinati stimoli, provenienti dall’ambiente esterno, dovessero venire a mancare, il cervello interverrebbe da solo per rimediare a questa carenza, producendo degli stimoli per se stesso. Io continuerò a stare sola finchè lo vorrò, finché ne avrò bisogno e finché ciò mi farà stare bene. Che il mio cervello lo prenda come un esercizio. Non mi sorprenderei se, per supplire ai mancati stimoli esterni, esso cominciasse a allietarsi con delle allucinazioni, con suoni, immagini e sensazioni distorte. Forse la compagnia sarà migliore di quella che mi viene offerta al momento dal mondo che mi circonda, forse farò nuove amicizie, forse riuscirò a litigare anche con queste nuove figure, forse sentirò delle voci e riuscirò a zittirle o forse vorrò che mi facciano compagnia, chi lo sa. Se queste allucinazioni mi permetteranno di continuare a stare bene, ben venga. “Diverrai matta”, mi dicono. Ne sono consapevole, e decido di accettarlo.
Sono una ragazza semplice, e amo mangiare. Amo mangiare ciò che fa più male, il cosiddetto “junk food” o cibo spazzatura, dalle patatine fritte ai cheeseburgers, dai nachos alle crocchette di pollo, dalle bevande gassate e ricche di zuccheri ai frullati al cioccolato e fragola, con tanto di panna. Più una cosa sa di frittura, maggiore è la quantità di salse con la quale riesco a condirla, più il suo sapore mi aggrada, il che mi spinge a mangiarne ancora. Questo accade perché le sostanze all’interno di quegli stessi cibi, unti ma saporiti, inviano dei segnali al mio cervello, spingendomi a mangiarne ancora, e aumentano in me il senso di fame, nonostante le calorie già assunte in precedenza. Inoltre, il junk food è stato a lungo studiato e, dopo molte ricerche, si riesce a produrne con delle sostanze che inibiscono una sensazione secondo la quale, quando si assaggia più volte lo stesso sapore, si comincerà ad essere insoddisfatti di quel sapore. Proprio per queste motivazioni, la mia voglia di cibo spazzatura e il livello di gradimento che esso provoca all’interno del mio corpo non potranno mai essere spazzati via da me, nonostante i vari rischi che i grassi contenuti al suo interno possono rappresentare. Infatti, le fritture e tutto ciò che le accompagna, potrebbero portarmi a soffrire di diabete, ovvero una patologia del sistema endocrino causata da un eccessivo livello di zuccheri all’interno del sangue e da una riduzione della quantità di insulina prodotta dal pancreas. Inoltre, potrei soffrire di obesità, malattie cardiovascolari e tumore. Eppure non riesco a sbarazzarmene, è il mio “mangiar sano”. “Questo non è mangiare sano, anzi, ti porterà dei problemi”, mi dicono. Ne sono consapevole, e decido di accettarlo.
Sono una ragazza semplice, e amo essere magra. Come già detto, il mio “mangiare sano” potrebbe, a lungo andare, portarmi all’obesità. Personalmente, non credo che questo sia possibile, per il momento sono ancora come dovrei essere, che sia grazie ad un metabolismo veloce oppure no poco importa. Ingrassare non mi preoccupa, prendo le giuste precauzioni, nonostante mi dicano che dovrei smetterla. Una volta, in un momento di rabbia, qualcuno mi ha urlato: “Bulimica!”. Eppure, io non soffro di una semplice bulimia, bensì di bulimia nervosa, un disturbo alimentare legato all’ingurgitare cibo in maniera smodata ed incondizionata, per poi smaltirlo attraverso vomito autoindotto, esercizio fisico o lassativi. È una cosa abbastanza comune nelle ragazze della mia età, o almeno credo. So che la bulimia porta con sé depressione, rischio più alto di ansia e tossicodipendenza, nonché erosione dello smalto dei denti a causa dell’acido gastrico con il quale sono continuamente a contatto. “Tu sei malata”, mi dicono. Forse sono malata, o forse no, ma sono felice. Corro dei rischi, ne sono consapevole, e decido di accettarlo.
Sono una ragazza semplice, ma due anni e mezzo fa mi è stato diagnosticato un disturbo nervoso chiamato schizofrenia, una forma di psicosi caratterizzata dall’alterazione delle forme di pensiero, del comportamento e dell’affettività. Il termine significa “suddivisione delle funzioni mentali”, a causa dei sintomi della malattia, che comprendono allucinazioni uditive, deliri paranoidi e discorsi disorganizzati. Ad essere onesti, le allucinazioni non mi dispiacevano, così come le manie. La situazione è diventata insostenibile quando, a causa di disfunzionalità dell’apparato motorio, ho dovuto cominciare a curarmi seriamente con numerose pillole, a causa delle quali sono stata costretta ad abbandonare tutto ciò che più amavo. È stato l’anno più brutto della mia vita, senza alcool, poca musica, sempre in compagnia di qualcuno che mi sorvegliasse e controllasse che prendessi le pillole giuste al momento giusto. Poi la depressione, quella vera. Arrivata a venticinque anni, non avevo più la forza di muovermi.
Dopodiché la svolta, l’ultimo sforzo fisico, benedetto sforzo fisico che mi ha restituito la mia amata libertà, che tanto mi era mancata in quel periodo. Da quello sforzo è passato ormai un anno e mezzo, sono tornata a bere, ad essere sola e libera, ad ascoltare la musica al volume che piace a me e a mangiare fritture su fritture. Nessuno dovrà più preoccuparsi del mio futuro se non io, e il mio futuro è questo eterno presente. Ora sono felice.